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Una lezione di fisica

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lezione di fisica a MandalayL'aula è piccola, i banchi simili a quelli che da noi si vedono ormai soltanto in chiesa, un tavolo sottile e una panca che corre parallela ad essa, uniti in un unico blocco dove siedono quattro o cinque ragazzi uno a fianco all'altro, ciascuno silenziosamente intento al proprio compito. L'insegnante ci rivolge un saluto discreto e franco e subito torna a dedicare la sua attenzione, anche lei in silenzio, al lavoro dei suoi studenti. L'ingresso di alcuni visitatori fuori dell'ordinario sembra disturbare appena la concentrazione di questa classe. È la mattina di un giorno di festa, le scuole sono chiuse anche qui per le festività invernali di qualche giorno. Ma queste ragazze e questi ragazzi sono in piedi da tempo, nel collegio privato dove ricevono alcune ore di insegnamento supplementare, con insegnanti che possono spiegare loro gli argomenti di studio. Con impegno, copiano tabelle o quesiti da un fascicolo ciclostilato che fa da libro di testo, scrivono in una grafia limpida e un po' artificiale le risposte richieste. Il soggetto della lezione lo leggo sul frontespizio del fascicolo, un titolo sobrio su una copertina monocolore: Modern Physics.
Chiedo di poter sfogliare il testo, che mi viene offerto con un sorriso timido. Ci sono semplici nozioni sulla struttura elettronica della materia, sul funzionamento dei tubi a vuoto e dei semiconduttori, sui circuiti logici. Soltanto dopo qualche minuto mi accorgo di un dettaglio importante: il testo è in inglese. Leggo la frase: The current flows in one direction only in a junction diode. Ma questi ragazzi di quindici anni non parlano inglese. Non hanno imparato a scrivere in inglese e neppure nell'alfabeto latino. Un foglietto appeso alla parete, scritto a mano in un alfabeto di cui non decifro neppure una lettera, offre un contrasto evidente con le pagine del libro che ho in mano. Ma è naturale che sia così. Siamo a Mandalay, la seconda città del Myanmar, il paese del Sud-Est asiatico che molti in Italia conoscono meglio con il nome coloniale di Birmania.

Durante le ultime vacanze di Natale ho avuto la fortuna di fare un'esperienza meravigliosa e importante. Sono statolibri e appunti per la terza volta in Myanmar, ma questa volta non per turismo. Con mia moglie Gloria abbiamo portato il denaro necessario e incontrato le persone necessarie, visitato i luoghi che dovevamo visitare, per assicurarci che una bambina di tredici anni, conosciuta tre anni e mezzo prima, potesse continuare a studiare e ricevesse un'istruzione all'altezza delle sue capacità. Siamo entrati in case e aule molto diverse dalle nostre, abbiamo abbracciato persone di cui non comprendiamo la lingua, siamo stati invitati a pranzo con pietanze che vedevamo per la prima volta. È stata una grande avventura, l'occasione privilegiata di imparare qualcosa che altrimenti non avremmo mai conosciuto. Ma questo non è il luogo adatto a raccontare la nostra avventura. Non è per questo che siete venuti a visitare un blog che parla, o dovrebbe parlare, di fisica

Così, non voglio ripetere quelle che possono ormai suonare come delle banalità. Lasciamo perdere le riflessioni, pure assolutamente valide, sul valore che assume lo studio quando costa tanta fatica e tanti sacrifici, in primo luogo economici. Diamo per scontato l'invito a manifestare la massima solidarietà verso quei popoli e quei paesi nei quali una cosa semplice come una lezione di fisica può diventare un obiettivo prezioso che si è disposti a pagare a caro prezzo. Concentriamoci sulla fisica.

Incontrare dei ragazzi birmani che studiano fisica in inglese mi costringe a riflettere sul significato della disciplina che insegno e di cui scrivo. Un significato che per lo più do per scontato, muovendomi all'interno di un linguaggio che parlo fin da bambino, pensando alla "ricerca della verità" con i concetti che ci ha trasmesso la filosofia greca. Ma questi ragazzi probabilmente non sentiranno mai parlare di Socrate o di Aristotele. Sul comodino di una delle ragazze, nella camerata che ospita una dozzina di semplici letti di legno (per qualcuna di loro sarà la prima volta che avrà un proprio letto), fra i quaderni e la foto di un attore in abiti occidentali spunta l'immagine del Buddha. La cultura di questi ragazzi è molto lontana dalla nostra. Eppure studiano la teoria di Rutherford e Bohr della struttura atomica. Cosa vuol dire, questo? Che cosa ci dice sulla scienza, sulla nostra scienza?

La cosa più importante che ci dice, almeno per me, è che nessuno di noi potrà mai usare la scienza come l'elemento di un'identità esclusiva, come una scusa per dire "noi" e separarci da "loro". La nostra scienza non è nostra: è di tutta l'umanità, oppure non ha alcun valore. La matematica che studiamo a scuola è stata costruita dai babilonesi, dai greci, dagli indiani, dagli arabi. Ciascuna di queste culture ha lasciato in essa la sua impronta e ne orientato lo sviluppo in una direzione piuttosto che in un'altra.
I greci hanno concepito a lungo la matematica in termini geometrici, e non sono riusciti a costruire un linguaggio algebrico pienamente sviluppato. I matematici dell'India classica, inventando lo zero, hanno permesso la nascita dei sistemi numerici moderni. Come a facciamo a sapere se nella fisica come la scriviamo oggi non ci siano elementi storici e culturali che ci impediscono di vedere nuove possibili direzioni di progresso? Il modo migliore per assicurarci che la scienza non rimanga imprigionata nei pregiudizi di una particolare cultura è fare in modo che la studino e la coltivino tutti i popoli del mondo, anche i ragazzi di Mandalay. Sono loro che fanno un favore al nostro futuro, non noi a loro.

In quell'aula dimessa avrei dato molto per poter fare qualche domanda a quegli studenti, chiedere loro qualcosa di semplice, "What is an atom?", ad esempio. Non l'hofiera di Ananada fatto per rispetto della loro insegnante, per paura di non cavarmela abbastanza bene in inglese, per non metterli in imbarazzo. Ma sarebbe stato bellissimo condividere per qualche minuto gli stessi pensieri, parlare in qualche misura la stessa lingua.
Le differenze sono una cosa bellissima. Senza le enormi differenze fra il Myanmar e l'Italia non avrei così tanto da imparare da un viaggio, e l'esperienza di trovarmi laggiù non sarebbe così emozionante. Ma la sommità dorata del tempio di Ananda Pahto, a Bagan, acquista una bellezza ancora più struggente vista in mezzo alle botteghe di una fiera di paese dove qualcuno ha costruito perfino una giostra, con automobili di latta e elefanti di legno. La giostra, quella la riconosco. Così povera, avrei forse potuto incontrarla da bambino nella città del meridione dove sono cresciuto, più di quarant'anni fa. Questo elemento di familiarità rende Ananda ancora più sorprendente e più squillante.
La scienza può essere un linguaggio comune a tutti noi, non "noi italiani" o "noi europei", ma noi esseri umani. Un linguaggio che non esige l'adesione preventiva a un sistema di credenze e di valori, ma soltanto la condivisione di alcune pratiche, di un amore della chiarezza e della precisione. La precisione e la pazienza con cui le ragazze e i ragazzi di Mandalay tracciano lettera per lettera le parole nel "nostro" alfabeto.


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